Il Limbo è quel luogo dove Dante piazzò tutti coloro che non avevano colpe, ma che non potevano essere salvati. Dai miei lontani studi me lo ricordo come un luogo di gente che sospira e aspetta, in eterno. Un luogo in penombra, dove non si soffre necessariamente, ma non c’è nulla.
Il limbo è una sala d’attesa del medico con una sola persona davanti a te, in eterno.
È un risponditore automatico con musichetta gracchiante e rumore d’aereo in decollo e a intervalli regolari una voce rassicurante che dice “lei è la prossima persona in attesa”.
Il limbo è il luogo dove mi sembra di essere precipitata da un anno.
Non sto male, non sto bene, non sono triste, non sono contenta. Non sono arrabbiata, non sono tranquilla. Non sono soddisfatta, non mi lamento.
Sono stufa, sto viaggiando con la spia della riserva accesa da mesi, aspetto, aspetto, aspetto.
Non mi ricordo più cosa sia uscire al ristorante, a prendere una birra, mangiare fuori chiacchierando con amici.
Non so più cosa sia invitare gente, fare la festa, abbracciarsi, stare vicino, giocare.
Non so più cosa sia viaggiare in libertà, senza orari, senza limiti.
Non mi ricordo più il piacere di camminare per le strade della città, entrare e uscire dei negozi senza doversi preoccupare del numero di altri clienti, di disinfettarsi, di non attardarsi troppo per lasciare il posto agli altri.
E poi andare a teatro, frequentare associazioni, incontrare gente per parlare delle proprie passioni.
Non mi lamento, sono fortunata. Lavoro (anche se lavoro il doppio per reinventarmi come prof 2.0), ho la mia famiglia, per fortuna ci sono Skype e Zoom e Teams e tutto il resto. Ho un giardino, una casa grande, abito in un luogo relativamente poco affollato e pieno di verde.
Ma sono stufa, stufa, stufa. Vedo la luce in fondo al tunnel (il vaccino, l’immunità di gregge, la fine delle restrizioni), ma non si avvicina. E non si avvicina anche perché molta gente intorno se ne frega. E io che cerco di stare attenta, io che non ho colpe, io che cerco di seguire tutte le direttive meglio che posso, io sono obbligata a restare in questo limbo sempre più a lungo, a causa - anche - loro.
Sono qua, in un’attesa che sembra eterna, in un Limbo dorato e ovattato, dove i giorni passano contando i contagiati e i morti e sperando che quelle morti non mi tocchino troppo da vicino.
Non è mia abitudine scrivere questo genere di post, ma forse ho bisogno di esternare un po’ questa sensazione di stanchezza mentale, di spossatezza psicologica… non voletemene. In quest’anno non c’è stato solo il coronavirus, altre cose spiacevoli hanno contribuito a renderlo un anno da dimenticare.
Tra un anno spero di poter rileggere questo post e dirmi “meno male che tutto ciò è passato e che ne siamo usciti”.
(La foto, un antico luogo di culto gastronomico dove la gente si ammassava nel mondo di prima, è stata scattata due mesi prima che mi facessero il tampone covid, me lo fecero perché avevo dei sintomi e tornavo dall’Italia. Fui la prima paziente covid della mia dottoressa e probabilmente del comune. Wow)
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